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Riscrivere la memoria

Florian Schneider

"La storia dell’arte è la lotta fra tutte le esperienze ottiche, gli spazi inventati e le rappresentazioni"
(Carl Einstein)

«Non ricordiamo; riscriviamo la memoria»: nel suo film Sans Soleil (1983), Chris Marker ha fatto una straordinaria dichiarazione. Penso che qui si trovi il nuovo potenziale di un approccio documentaristico e open source alle sfide del politico connesse all’intelligenza e all’immaginazione collettiva: come dar forma e sviluppare «tecnologie del sé» in grado di riscrivere la storia. Potremmo averne abbastanza di tutte le forme di fiction prefabbricate che riducono e limitano realtà complesse a trame più o meno paranoiche e narrative universalmente intercambiabili.

I
Nel contesto di molta parte del recente dibattito sulle relazioni tra arte e politica, si fa spesso riferimento all’erosione dell’orizzonte utopistico dell’arte, su cui era fondata la sua forza di generare «contro-concetti». La forza dell’arte sta nell’abilità di immaginare cose in maniera diversa, nel rifiuto del dato, nella sovversione e trasgressione dei confini di una modernità disciplinare e della sua razionalità egemonica.
Sotto i parametri del regime disciplinare, l’immaginazione utopistica era alimentata dalle idee e dalle pratiche di trasgressione, sovversione ed emancipazione fondate sull’idea di un «fuori», di un «oltre» e di progresso. Queste idee hanno formato un’intera economia dell’immaginario, in cui si ritrovavano fuse insieme l’immaginazione creativa e le istanze di politiche emancipatorie.
Con l’ascesa di ciò che è stato chiamato capitalismo cognitivo e società del controllo, in cui l’immaginazione creativa e la modulazione dell’immaginario sono messi al servizio come risorse e forze produttive, tanto la dialettica di affermazione e negazione, quanto i parametri critici sono stati soggetti a spostamenti tettonici. Ciò attua una crisi nell’economia dell’immaginazione stessa, della sua reale abilità a immaginare le cose in maniera diversa. Oggi i confini statici contro cui si era formata un’immaginazione dissidente, sono in movimento, sottoposti a gestione, calcolo, valutazione, e danno origine a nuove configurazioni di potere in cui è in gioco il potere stesso dell’immaginazione di negoziare i limiti del possibile.
Quale sarà la «produzione della visione» che emerge dalla crisi attuale? Una produzione della visione che si basa sull’esperienza opposta: piuttosto che con la frammentazione, alienazione e sconnessione, abbiamo a che fare con l’esperienza di un controllo reticolare (in grado di monitorare in tempo reale) e con la performance di un sé carismatico…
In una società del controllo, l’immaginazione sembra diventare quasi sinonimo della forza di creare immagine. Possiamo esperire due modalità differenti di produzione d’immagine: «immaginazione preventiva» e «immaginazione anticipatoria». Le immagini preventive postulano un continuum, mentre la modalità anticipatoria implica una rottura tra ciò che è presente e gli eventi futuri. La modalità preventiva si collega alla fabbricazione di fiction, quella anticipatoria tenta una difesa del reale cancellato.

II
Che cos’è il politico? La politica è l’arte di creare un corpo politico: nella sua essenza è l’arte di situare propriamente gli oggetti e i soggetti. È la conoscenza del luogo dove le cose o (con sempre più importanza) le persone sono situate, identificando i loro posti e stabilendo un ordine per separazione, segregazione, classificazione e organizzazione. L’attinenza dell’ordine risultante appare come organica. Il suo essere appropriata richiama il fatto che la conoscenza delle situazioni è stata fatta propria e trasformata nella proprietà chiave del potere.
La politica moderna è emersa come strategia di inclusione ed esclusione: un regime che disciplina l’individuo, limita la sua libertà di movimento, l’arresta in un luogo specifico per una certa quantità di tempo. Il politico, a sua volta, risulta come una linea di fuga, sta nell’evitare l’ordine stabilito della politica: rifiuto, secessione, migrazione, esodo. Il politico è il divenire minoritario, è la resistenza contro la conoscenza del potere che rende soggetto e oggetto identificabili e dunque calcolabili entro un dominio spazio-temporale che li rende funzionali all’apparato di produzione industriale. Nei decenni passati abbiamo fatto esperienza di come il paradigma disciplinare, l’idea di inclusione ed esclusione, la politica hanno subito drammatici spostamenti: dal posizionamento alla localizzazione, dalle politiche di identificazione alla performance di un sé carismatico in tempo reale.
Che cosa è allora politico? Che cosa potrebbe costituire un rifiuto della politica come noi la conosciamo? Che cosa potrebbe caratterizzare la resistenza contro il potere per come lo subiamo oggi?
L’atto di resistenza ha due lati: è una lotta umana che varia dal micro-politico «preferirei di no» del Bartlebly di Herman Melville, alla semplice intuizione che esiste sempre una via d’uscita, indipendentemente da quanto possa essere disperata una situazione. Le macchine semiotiche del divenire minore che, in opposizione al modo ingegneristico, generano i grandi miti dell’esodo, sono essenziali per la sopravvivenza. È resistenza contro la morte. È un segno di vita.
Ma resistere è anche l’azione dell’arte. L’arte è resistenza contro la comunicazione. È resistenza contro la condivisione di opinioni, lo scambio di ogni cosa che è resa interscambiabile, la comunicazione della comunicabilità. È resistenza contro l’esteticizzazione della politica partecipativa e la produzione di fiction generate dagli utenti. La resistenza diviene politica non appena è resa pubblica. Ma diviene politica come produzione di realtà, un aumento di realtà attraverso la produzione di visione di un genere differente. È la trasformazione di come vediamo piuttosto che di quello che vediamo. È la difesa del reale che viene cancellato. In questo senso non c’è una politica ma tutto è virtualmente politico. È un atto discorsivo e una produzione d’immagine, ma quello che è udibile e ciò che è visibile non sono più in sincrono, sono in crisi permanente:

La posta in gioco è la reale capacità di fare immagine. La crisi odierna di immaginazione pone la domanda sulla proprietà: immagini di chi? Finzioni di chi? Chi le produce? E chi se ne appropria? Che cosa significa avere la proprietà di un’immagine?
«Uns trägt kein Volk, aber wir suchen ein Volk»1 (Non abbiamo il sostegno di un popolo. Ma un popolo noi lo cerchiamo). L’arte è fatta per un popolo che stiamo perdendo. «Un popolo» ha bisogno di essere invocato piuttosto che rappresentato o guidato, figuriamoci coinvolto attivamente, poiché il popolo non esiste più o non esiste ancora…
Quello che conta tanto in arte che nella vita è la riconfigurazione collaborativa di fatti sociali, la costruzione di mondo piuttosto che il rispecchiamento e la riaffermazione dell’ordine esistente e dei valori prevalenti tanto quanto i loro significati.

III
L’approccio documentaristico è caratterizzato da una peculiare relazione con l’inatteso, l’imprevedibile e l’incalcolabile. Questo è quanto ancora lo distingue dalla fiction che è governata dall’idea di previsione, con il fabbricare una narrativa prima che il progetto abbia luogo realmente e l’allineare le rispettive immagini in anticipo. Il documentario è anticipatorio. Il suo carattere anticipatore sta nella radicale opposizione al presupposto che i documentari siano noiosi. Rifiuta l’idea di ipotizzare una precisa reazione da parte dello spettatore e dunque rifiuta anche la nozione di interazione che si basa sulla possibilità di scelta. Nel documentario non c’è determinazione e non c’è scelta. I progetti di documentario sono realizzati dopo l’evento. Non si realizzano durante la ripresa ma nella fase di montaggio. Il loro luogo di nascita è la sala di montaggio. La nozione centrale del documentario si riferisce a un’artificiale ricomposizione di un evento passato, ma in modo tale che esso ritorni nel futuro, creando nuove relazioni in rapporto a testimoni ancora sconosciuti in grado di giustificare quella creazione e non l’evento stesso.
La rete appare come una gamma ridondante che documenta ogni possibile movimento, accede e cattura, registra e deposita ogni interazione tra il soggetto e l’oggetto. La sua realtà è documentata prima ancora che abbia luogo, senza consentire uno spazio critico.
Contro questo sfondo, il film documentario combatte una battaglia persa. Appena una clip, una sequenza, o un intero video viene caricato online, il suo contenuto esiste solo in relazione a un’attività già prevista che sarà calcolata e dunque documentata in ogni modo.
Una modalità del documentario che è caratterizzata da:

L’emancipazione del documentario dal medium di supporto.
Una peculiare relazione all’inatteso, l’imprevisto e l’incalcolabile.
Il documentarista è soprattutto occupato ad attendere, l’aspettativa di qualcosa che sta per accadere e che non può essere calcolato.
La digitalizzazione del film ha innescato una completa ridefinizione del montaggio: piuttosto che tagliare il materiale montando il girato del film, flussi differenti di dati sono connessi e disconnessi, uniti e separati, in un modo che influenzino i metadati, in opposizione al materiale stesso.
La modalità del documentario come noi lo conosciamo è sempre emersa dal desiderio, e dalla sua tecnica, di uscire dagli spazi chiusi degli studi di produzione e andare nelle strade catturando la vita pubblica, appropriandosi di una realtà che esiste indipendentemente dal girato. Le strade del documentario sono oggi nella rete.
Il documentario come spazio che ricostruisce il passato anticipando un evento futuro, che è aperto, senza svuotare il suo possibile significato e senza ridurlo a un insieme di opzioni possibili.

IV
Interfacciandosi con l’avvento delle nuove tecnologie che rivoluzioneranno la produzione delle immagini nel web (html5) un’ampia gamma di nuove possibilità si apre per ripensare radicalmente la produzione filmica convenzionale. L’estetica di queste nuove possibilità è radicalmente sperimentale. Richiede una riflessione sulle condizioni formali della produzione contemporanea di immagini:

1.Relazione tra il leggibile e l’illeggibile. Non appena un film è messo online, c’è una tendenza apparentemente irresistibile a ridurre interamente l’immagine a ciò che è leggibile. Nella sfera del digitale e sotto le condizioni della rete le parti illeggibili che di solito costituiscono l’immagine sono in via d’estinzione: si suppone che ogni cosa possa diventare leggibile e decifrabile per essere ricercata e ritrovata, categorizzata, indicizzata o taggata e, in ultima istanza, soggetta a un algoritmo. In definitiva questo significa morte del film invece noi abbiamo bisogno di ricercare l’illeggibile e l’imprevedibile. Per esempio abbiamo bisogno di sviluppare relazioni creative piuttosto che descrittive tra le tag e le immagini. Dobbiamo imparare ad apprezzare ciò che non è calcolabile.
2.Esplorare un fuoricampo «assoluto». La reinvenzione del documentario avrà luogo fuori del campo e non dentro il fotogramma. Ambienti in rete consentiranno ai filmmaker di lavorare con fonti che non sono sostanzialmente catturate nel processo originario di ripresa. La potenzialità della rete è quella di un assoluto fuoricampo: qualcosa che non è visibile e comprensibile ma perfettamente presente. L’assoluto fuoricampo dell’ambiente dentro la rete richiede un passaggio da uno a molti sonori: i flussi di testo per esempio che non traducono quanto detto ma aggiungono voci che non sono visibili né udibili.
3.De-cadrage. Il risultato è una sostanziale e permanente destabilizzazione, rinegoziazione e riorganizzazione del fotogramma. Non c’è fuga nella modalità a schermo pieno, al contrario il contenuto dell’immagine sfugge costantemente un’inquadratura propria, attraversando il bordo dell’immagine allo scopo di accomunarsi alle informazioni aliene, agli eventi sconnessi o ai flussi inappropriati. Sotto queste circostanze non c’è possibilità di riadattare il fotogramma, non c’è nessun possibile re-cadrage. Il de-cadrage è la condizione assoluta dell’immagine in rete, costituisce la sua libertà di movimento.
4.A-sincronizzazione. In ultima istanza dobbiamo arrenderci a una delle principali virtù del cinema analogico: la sincronizzazione retrospettiva del movimento dell’immagine con flussi addizionali, specialmente audio. In definitiva siamo irrevocabilmente fuori sincrono. Questo apre alle grandi potenzialità di un senza tempo che potrebbe essere capace di superare la sottomissione del suono all’immagine, la commercializzazione del senso attraverso la trama e, infine, l'auto-umiliazione dello spettatore alienato.
5.Discontinuità. Le attuali estetiche online sono soprattutto caratterizzate dalla tessitura di ogni unità in una rete di similarità e connotazioni – conosciuta anche come tagging – del tipo: «I clienti che hanno comprato questo oggetto hanno comprato anche quest’altro…». Si suppone che questo abbia la capacità di placarci in vista dell’aspetto arbitrario e allucinatorio delle realtà in rete. Esso reintroduce i meccanismi di una realtà convenzionale che riduce la complessità e l’eterogeneità a concetti e terminologie che si basano su somiglianza, identità e similarità. Così facendo esso distrugge ogni aspetto di forma che non sia ripetitivo. «La rappresentazione classica crea uno spazio continuo in cui oggetti e persone sono collocate come entità discontinue» (Didi-Huberman). Per salvarci dalla truffa della realtà monotona fondata sulla ripetizione dello stesso, dobbiamo comprendere ciò che potrebbe costituire al contrario una nozione di rete che è basata sulla disgiunzione piuttosto che sulla congiunzione, sulla rottura piuttosto che sulla continuità: un algoritmo che produce dissimilarità piuttosto che similarità, differenza piuttosto che monotonia, molteplicità piuttosto che identità.
6.Trans-visualità. Gli esperimenti estetici con carattere di produzione in rete accompagneranno una trasformazione della visione e delle leggi di visione che determinano come vediamo un mondo che è diventato uno spazio in rete. Questi esperimenti devono esplorare un nuovo campo che vorrei suggerire di chiamare con Carl Einstein «trans-visuale». Esso opera nel vuoto di uno scarto che si apre tra ciò che è reale e l’immaginario, ciò che è concepibile e inconcepibile, ciò che è visibile e quello che non lo è. Il trans-visuale è ciò che è oltre l’esperienza ottica. In un certo modo esso marca l’opposto dell’inconscio. Come possiamo vedere la rete? O meglio: che cosa sarebbe la visione in rete? Einstein suggeriva una radicale trasformazione della visione fondata sull’«egemonia della vita interna sulla vita esterna» che fronteggia «l’abisso dell’esperienza interna» e di conseguenza conduce alla «finale disintegrazione dell’io nell’atto creativo». Il positivismo contemporaneo di un mondo che è paralizzato dalle tecnologie in rete ha bisogno di essere rifiutato da un nuovo genere di verticalità. In entrambi, produzione ed estetica contemporanee non c’è niente di meno in gioco che la relazione tra il soggetto e l’oggetto in una esperienza di spazi in rete. Infine la sfida riguarda come riacquistare una visione o visualizzazione in qualche modo stabile e chiara di un mondo che ha subito drammatici cambiamenti dovuti alle sbalorditive esperienze di un’accelerazione su differenti scale globali.

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